domenica 16 febbraio 2014

Delirio di scrittore

Non è un morbo, un'epidemia, che contagia secondo stimoli prestabiliti; non è nemmeno l’eruttare di un vulcano in attività. O ancora il proferir parola di un vagabondo avvinazzato, profondamente addolorato o particolarmente felice e inasprito dalla vita. L'erma ben solido e non improvvisato su cui si fondano la scrittura e la libido dei suoi fraseggi, è qualcosa di più; qualcosa che ha origine da un equivoco, da parole dette sul filo dello sproposito. Potrebbe essere  il nocciolo che nasce da un’analisi attenta, da una scorrevole logorrea, che appartiene alla penna di un castigato autore. Non v’è recinto tanto capiente da poter contenere le liti, le vertenze, le assenze, il coraggio, la ragione, le gioie e le disfatte di un imperituro letterato. Il disordine nasce dalla non scienza, così dicono, la quale sconfessa il raziocinio messo al palo a sua volta dalla mente libera e aperta all'infinito. Non esiste suddito di un foglio particolare; c'è invece un foglio vuoto che ha, sempre, almeno un padrone, la cui ubbidienza d’arte è il suo sardonico piacere di essere notato e di farsi leggere. Necessità. Esibizionismo. Urgenza. Tutto si immagini e ancor non basterebbe a definir tale l’artista. Ogni stagione porta con sé frutti e colori propri, come ogni uomo ha in sé caratteristiche peculiari. Non ci sono termini precisi per stabilire e decretare l'estro farneticante. Ci si fida del parere dei sapienti. Costoro gridano a gran voce, sorretti dal peccato mortale, di conoscere l'ultimo degli illuminati di turno. Il portatore degli allori più verdi. Lo scrittore ammantato, vestito dei suoi stessi assiomi, che si promette di lasciare un po' del suo intelletto su questa terra dolorante. E il popolo, il volgo volgare, dovrebbe inchinarsi e gettare petali di rosa al suo passaggio? Sì! Sempre. Questa è una legge che arriva dall'aldilà, finezza primordiale anche se maleodorante. È un dovere che puzza di carcassa in putrefazione. 
Affermano i luminari: riverisci l'eloquenza e impara da chi ne sa! Lo dicono loro, i saggi. Al nascere del genio si squarcino i cieli e si dividano le acque, perché la sua mosèiana mente abbisogna di luce e di fondali sicuri su cui appoggiare i piedi soffici. Il vero dotto è sovversivo, come una freccia che parte e mai arriva per sua scelta; è un dardo contrario ai facili obiettivi. È un frenetico esalatore di gas che paralizza. Il poeta sublime è il sommo straniero che raduna in branco le greggi di parole sparse. Quello che rovista nella farina dei suoi armadi, raggranellando ogni briciola per farne pane di sapienza, eternamente commestibile. Il tempo non può cambiare la consistenza delle sue idee. Non v’è pietanza che egli non possa insaporire, a cui non prestare attenzione e, successivamente condividere. Il delirio, o scrittore, è il popolo che abita la tua mente dilaniata dal gridare di chi non ha voce, e parla per vece tua. Tu sei il vero alfiere della scacchiera! Non certo i re o le regine, possono raccogliere i chicchi di selce che, lasciati cadere a terra da un pollicino qualunque, segnano la strada per il paradiso. Tu sì, li cogli. E l'orgoglio, il tuo, è ben felice di sistemare i cassetti con tutta la saggezza di cui disponi. Sei irritabile e indolente. Asciutto. Sporco come un operaio risoluto, poetastro, a volte sai dove e quando partire, e, non di meno, quando finire. Libero come un estremo fuoco nella mente e poco nelle scarpe, muovendoti ad libitum sempre sugli stessi territori, imbarazzi chi al tuo cospetto non ti sta ad ascoltare. Chi capirà il tuo dolce scorrer di labbro, come di biro? E il tuo parlar ferace, chi avrà privilegio di comprenderlo? Che il delirio ti sia cultura e diversità, amico, ma non sia cloaca entro cui infilare i nemici. Hai l'obbligo e non solo il pregio o il vezzo di essere uomo colto e onesto, diritto, emancipato e non curante dei tabù. Come il sole l’ha di scaldare la terra. Il tuo fucile è carico di delirio festoso; i tuoi orizzonti diventeranno il sapere comune. Ogni lacrima spesa e sofferta sarà di importante levatura. Levigato non giungeresti ai posteri, scabro tagliente e ferito diventeresti eterno. Il tempietto che, per te costruiranno, sorgerà sull'ultimo dei sette monti che partono dal fango e giungono in cielo. Nessuna croce, né di legno o di ferro e né di carne, sarà piazzata sul suo vertice: non ce ne sarà il posto, poiché la tua, terrena, riempirà già ogni centimetro di quel tetto. Non potrà esserci vizio se il delirio sarà cibo commestibile, per sfamare gli uomini di buona volontà! Vivifici gli impulsi che nasceranno dalle tue malizie. 
La ventura corre sempre sul filo della bellezza. La sventura galoppa sulla lama di un rasoio tagliente, pronta a cogliere il minimo passo falso, l'occasione per tagliarti le vene. Ogni momento. Scrittore delirante che hai ipotecato il destino, senza che nessuno ti suggerisse opinione o, prima ancora, t’insegnasse a camminare, respirare o mangiare. Ami far l'amore con le tue stesse parole, emozionandoti davanti allo specchio, eccitandoti con talune ipocondrie. Giocando col nettare di una mentula sempre in tensione: la penna. Che sai usare, delicato angelo a cui ho strappato una penna, nel tentativo di giungere anch'io alla vetta. Se la mente non supera la solitudine della bruma, se non va oltre l’oblio della palude bramando gli antipodi e, ancora per proseguire, sbucando all'opposto del mondo per essere piroettata nel cosmo, tra stelle e pianeti in cerca degli dei, se questo non succederà, rimarrai un misero uomo. La cura è un medicinale che non fa sconti o proroghe. Come il deportato si avvierà alla sua prigione, tu, ti concederai perennemente alla normalità della morte, in povertà d’intelletto e scrittura. O in un lago sconosciuto, nuoterai nell’enfasi del tuo delirio: senza averlo scelto. Al pagamento del conto, la ricevuta sarà il fasto che ti tributeranno le generazioni, dopo. Che pagheranno, comunque, sempre troppo poco il prezzo che tu hai pagato in vita per il tormento e le inquietudini, le sevizie subite e le strade senza luci. E non ci vorranno finta umiltà o ignobile modestia per aprire quella porta. Non servirà nemmeno bussare. Occorre depressione, smacco, insuccesso e oltraggio, per poter annegare in un bicchiere. L'essere umano, innalza il trofeo del godimento affondando la spada nel dispiacere collettivo. L’essere umano: non tu! Il tuo fine, delirante e operoso estensore, è quello di spingerti un po’ più in là di chiunque, immergendo la punta nelle solitudini più assolate e l’occhio nei venti più impetuosi. Il mare che hai dentro, è quello che colpisce la riva sempre più forte di quello che hai davanti; è quello la cui schiuma, deposita pensieri magici.

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